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Il lavoro a tempo illimitato non è ambizione: è paura, ed è ovunque

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Una nuova forma di stacanovismo si sta insinuando nel nostro quotidiano: il lavoro a tempo illimitato. A differenza di quello tradizionale, non nasce dal desiderio di carriera, ma dalla paura di non essere abbastanza. Controlliamo le mail prima ancora di alzarci dal letto, rispondiamo ai messaggi di lavoro dopo cena, viviamo in una connessione continua. Ma è davvero questo il modello a cui vogliamo abituarci? E soprattutto: è possibile uscirne senza rimetterci tutto il resto?

Come nasce il lavoro a tempo illimitato

Il lavoro a tempo illimitato non ha orari, confini o pause. È quella condizione mentale in cui si lavora sempre, anche fuori ufficio, anche di notte. Si inizia al mattino controllando la posta ancora prima del caffè, si salta il pranzo per “guadagnare tempo” e si finisce a rispondere a messaggi mentre si è in pigiama. Questo non è dedizione: è una trappola. Secondo Microsoft, il numero di riunioni fuori orario è cresciuto in modo vertiginoso, e la giornata lavorativa si estende spesso fino alle 22.

La tecnologia, anziché liberarci, ci ha legato ancor di più al lavoro. Le notifiche non dormono mai, e nemmeno noi. L’illusione è quella di essere più produttivi, ma in realtà si tratta di una corsa continua contro un flusso infinito di compiti. Lavorare a tempo illimitato non è una scelta consapevole: è un adattamento forzato a un ambiente che non spegne mai il motore. Si sopravvive più che si lavora, ed è un sistema che ci consuma a poco a poco.

Dallo stacanovismo alla cultura della minaccia

Una volta si sgobbava per raggiungere obiettivi. C’era una motivazione dietro: fare carriera, distinguersi, ottenere una promozione. Il nuovo stacanovismo invece ha un altro volto: quello della paura. Paura di sembrare pigri, di perdere il posto, di non essere considerati abbastanza. E così, si continua a rispondere, a lavorare, a “essere disponibili” sempre. Non per avanzare, ma per non retrocedere.

Questa dinamica è molto più tossica di quanto sembri. Non ci sono premi, solo la sensazione di dover tenere il passo. È come giocare a un videogioco senza fine, dove il punteggio non si alza mai. I giovani, inclusa la Gen-Z che sembrava aver introdotto la “slow culture” con concetti come il quiet quitting o i micro-pensionamenti, stanno comunque finendo nel tritacarne. Perché? Perché il sistema non è cambiato davvero. E senza un cambio sistemico, ogni strategia individuale rischia di fallire.

Le conseguenze sulla salute e sul benessere

Vivere in una condizione di lavoro costante porta con sé conseguenze gravi. La prima è la perdita della distinzione tra vita privata e professionale. Non c’è più spazio per l’intimità, per la noia, per la cura di sé. Ci si sente in colpa se si spegne il telefono, si salta la palestra, si rinvia la visita medica. Tutto sembra meno importante del dovere. Ma non è efficienza: è dipendenza da un sistema iperattivo e sbilanciato.

Secondo gli esperti, tra cui Bree Groff, il rischio maggiore è la normalizzazione del disagio. Ansia cronica, stress costante, incapacità di “staccare” sono diventati così diffusi che nemmeno li riconosciamo più come problemi. Ci si convince che “funzioni così” e si va avanti finché il corpo o la mente non presentano il conto. Eppure, basterebbe poco per invertire la rotta: consapevolezza, limiti, e soprattutto una leadership che dia il buon esempio.

Possibili soluzioni per spezzare il ciclo

Uscire dal lavoro a tempo illimitato non è facile, ma nemmeno impossibile. La chiave sta nel riconoscere che questo sistema non è naturale, né sostenibile. I datori di lavoro devono smettere di glorificare la disponibilità continua e iniziare a valorizzare la produttività vera. Serve un cambiamento culturale, in cui mandare mail di sera o chiedere un task all’ultimo minuto non sia più considerato normale o necessario.

Anche i singoli possono agire. Riempire il proprio calendario con pause vere prima che lo faccia il lavoro, spegnere le notifiche fuori orario, smettere di rispondere immediatamente a tutto. Il lavoro sarà sempre lì il giorno dopo. L’urgenza, spesso, è solo percepita. Non è solo una questione di benessere personale, ma di ridefinizione del valore stesso del lavoro. Non possiamo continuare a vivere come se fossimo connessi a una macchina che non si spegne mai.

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