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Hans-Ulrich Obrist: «Ogni mostra è un organismo vivente, ogni artista lascia un’impronta»

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Alla guida della Serpentine Gallery, Hans-Ulrich Obrist continua a ridefinire il ruolo del curatore nell’arte contemporanea. In questa intervista esclusiva, racconta la sua visione di mostra come processo vitale e relazionale, il legame con artisti come Giuseppe Penone, le ricerche sulla natura e sull’intelligenza artificiale, e l’importanza delle sue leggendari studio visits, motore silenzioso ma fondamentale per costruire il futuro dell’arte.

La mostra come forma vivente

Per Hans-Ulrich Obrist, direttore artistico della Serpentine Gallery di Londra, una mostra non è mai una struttura rigida, ma un essere in continua trasformazione: «Le mostre dovrebbero sfidare i parametri, non adattarvisi», afferma. È questo approccio dinamico, quasi biologico, che guida ogni progetto espositivo alla Serpentine, dove lo spazio si adatta all’artista e non viceversa.

Un esempio emblematico è la recente esposizione di Giuseppe Penone, figura cardine dell’Arte Povera, con cui Obrist ha un dialogo aperto da quasi quarant’anni. In mostra non solo le sculture, ma l’idea stessa di natura come co-autrice, con installazioni che si estendono ben oltre i confini architettonici, abbracciando Hyde Park. «Penone ha sempre avuto un legame profondo con l’ambiente. Il suo lavoro è un ponte tra uomo e natura», sottolinea Obrist.

Studio visits: semina del futuro

Oltre alle mostre, il cuore del lavoro di Obrist sono le visite negli studi degli artisti. Un rituale quotidiano che ha assunto negli anni un significato quasi archivistico. Ogni incontro si conclude con una frase, un pensiero, una firma su un post-it: «Un’idea nata da una conversazione con Umberto Eco, che si rammaricava della scomparsa della scrittura a mano».

Le studio visits sono anche uno strumento per contrastare quella che Obrist definisce «l’amnesia dell’era digitale»: una forma di resistenza contro l’oblio. Non solo giovani promesse, quindi, ma anche artisti storici poco conosciuti fuori dal proprio Paese. Come nel caso della retrospettiva su Arpita Singh, pittrice indiana attiva dagli anni ’80, alla sua prima personale internazionale proprio alla Serpentine.

Arte, ecologia e intelligenza artificiale

La programmazione della Serpentine rispecchia l’ampiezza degli interessi di Obrist: dall’Arte Povera alla sperimentazione con l’intelligenza artificiale. «L’IA è parte integrante del nostro lavoro da oltre dieci anni», spiega, citando artisti come Holly Herndon, Refik Anadol e Alexandra Daisy Ginsberg. Quest’ultima ha progettato un giardino “per gli insetti”, in cui l’IA genera ecosistemi immaginati dal punto di vista degli impollinatori, non degli esseri umani.

Questi progetti allargano la definizione di arte, estendendola al campo dell’ecologia, della tecnologia e dell’urbanistica. È una forma di “arte ambientale aumentata”, dove l’opera diventa strumento attivo per pensare il presente – e il futuro – in modo più sostenibile.

Le istituzioni come organismi

Alla Serpentine, ogni mostra è frutto di lunghi dialoghi, a volte decennali. «Lavoriamo con un solo artista per volta, permettendogli di trasformare lo spazio in un’estensione del proprio universo», racconta Obrist. È così che la galleria si fa organismo vivo, capace di cambiare pelle grazie agli artisti che la abitano.

Lo dimostra l’influenza duratura di Gustav Metzger, la cui pratica ha spinto la Serpentine a impegnarsi su temi ambientali per quasi un decennio. Una traiettoria coerente che oggi culmina in progetti come Back to Earth, un libro-manifesto con 140 proposte artistiche per agire in difesa del pianeta.

L’arte come dichiarazione quotidiana

Obrist è consapevole che l’arte non è solo ciò che accade nei musei, ma anche ciò che si scrive, si dice, si scambia. Le frasi vergate a mano dagli artisti nei suoi taccuini sono una forma di testimonianza: piccole capsule di senso che documentano il pensiero creativo nel suo farsi.

Così, tra installazioni nel parco, algoritmi generativi e disegni su post-it, Hans-Ulrich Obrist continua a tracciare una mappa dell’arte come esperienza condivisa. Non un’arte da contemplare a distanza, ma un’arte che respira, muta, ricorda e sogna.

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