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Le decostruzioni di Setchu e la sfilata co-ed primavera estate 2026

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Labbra e sguardi velati da un verde ranocchio, cappelli di paglia monumentali e un’estetica al confine tra poesia rurale e avanguardia urbana: la collezione co-ed di Setchu ha inaugurato la Milano Fashion Week Uomo primavera estate 2026 con una visione che affonda le radici nella decostruzione sartoriale e nell’immaginario giapponese.

Un debutto milanese che parla di rigore e libertà

Dopo il debutto a Pitti Uomo, Satoshi Kuwata porta il suo linguaggio maturo e stratificato a Milano, confermando una traiettoria creativa solida e riconoscibile. Il designer giapponese continua il suo lavoro di scavo e ricostruzione dei codici del tailoring, decostruendo la formalità per farne emergere nuove possibilità d’uso. Niente è lasciato al caso, ma tutto sembra spontaneamente fluido. È la grammatica Setchu: precisa, libera e mai banale.

Il suo approccio genderless diventa ancora più marcato in questa collezione. I confini tra maschile e femminile si sciolgono in silhouette ibride, in capi trasformabili e modulari. La camicia azzurra che diventa mantella, il blazer doppiato in organza trasparente, le camicie aperte ai lati: ogni dettaglio parla di versatilità e cambiamento. Non è solo moda da indossare, ma un pensiero da abitare.

Tra giardini urbani e silhouette inedite

L’uso della paglia è tra gli elementi più sorprendenti: diventa tessuto da costruzione, materia scultorea, elemento d’identità. Cappelli dalle proporzioni surreali avvolgono i volti, evocando atmosfere oniriche e fiabesche, mentre le gonne in fibra vegetale si trasformano in accessori stilistici sovrapposti a pantaloni larghi. La materia si fa leggera, ariosa, e dialoga con la luce del giorno come un’architettura effimera.

Il denim, con le sue proporzioni oversize e l’assenza di struttura rigida, è un altro punto focale. Tenuto in vita da una semplice stringa, sembra sfidare la gravità, ma custodisce una poetica precisa: quella del non-finito, dell’artigianale, della libertà. Le cromie, invece, danno ritmo e intensità allo show: esplosioni di arancio, giallo sole, maxi check, e righe sature che si stagliano su una base monocromatica. Una danza visiva tra rigore e esuberanza.

Tokyo, Milano, e un’afa stilosa

L’ambientazione trasporta il pubblico in una Tokyo immaginaria, densa di umidità e dettagli visivi narrativi. La scelta della location e l’afa palpabile diventano parte integrante della sfilata: si suda, si osserva, si respira la materia. Gli oggetti di scena — biciclette con canne da pesca, cassette in legno, paesaggi improvvisati — sembrano suggerire una giornata passata sulle sponde del fiume Shinano, tra sogno e realtà.

L’operazione scenografica non è mai fine a sé stessa: serve a rafforzare il discorso visivo di Kuwata, che vede la moda come un mezzo per raccontare storie culturali complesse, dense di simbolismi e richiami intercontinentali. Ogni sfilata è un esercizio narrativo, ogni capo una pagina da leggere. In questa Tokyo milanese, Setchu tesse un racconto in cui la moda è dialogo, atmosfera e intuizione.

Un’estetica che si fa identità

Quella di Setchu non è solo una collezione, ma un manifesto di intenti. Satoshi Kuwata non crea per stupire, ma per costruire un nuovo codice visivo, capace di sintetizzare Oriente e Occidente, minimalismo e opulenza, staticità e movimento. La sua è una moda che cerca la profondità, non l’effetto. Ogni capo conserva un’intelligenza formale che parla di tempo, memoria e identità.

Il suo percorso si distingue in un panorama spesso dominato dal rumore: silenzioso ma deciso, raffinato ma accessibile. Con questa sfilata, Setchu riafferma la forza di un’estetica che guarda lontano e si radica in qualcosa di profondamente personale. La moda, nelle mani di Kuwata, diventa un luogo di riflessione e trasformazione. Milano lo ha capito — e gli ha dato il palcoscenico che merita.

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