In tempi di guerra e caos politico, le opere dell’artista iraniano-americana ci ricordano che bellezza, fragilità e resistenza possono ancora coesistere.
Nel cuore della tempesta: la testimonianza di un’artista in esilio
L’incontro con Shirin Neshat, previsto inizialmente per inizio giugno, è stato rinviato. A distanza di qualche giorno, con il mondo scosso dai bombardamenti tra Israele e Iran, quel rinvio ha assunto un nuovo significato: il caso aveva trovato il suo tempo. Di fronte a un momento così critico, parlare con Neshat ha significato entrare in contatto con un pensiero artistico e umano potente, radicato nella dissidenza e nella poesia. La mostra “Body of Evidence” al PAC di Milano ne è solo l’ultimo esempio. Dal suo esordio con Women of Allah fino ai lavori video più recenti, la sua arte è sempre stata un atto di resistenza. Più che raccontare la guerra, Neshat la attraversa emotivamente, esprimendo dolore, esilio e desiderio. Un desiderio che nasce, etimologicamente, dalla mancanza di stelle: dalla privazione, ma anche da una speranza.
Neshat è cresciuta in un Paese poetico e insieme oppresso. Parlarle è come entrare in una casa piena di echi malinconici e dolci, come quelle descritte da Forugh Farrokhzad, poetessa che ha influenzato profondamente il suo lavoro. In questo momento storico, in cui la violenza sembra senza freni, l’artista confessa di sentirsi impotente, quasi paralizzata. Gli eventi recenti l’hanno riportata al trauma dell’11 settembre: l’ansia, l’incertezza, l’idea che nessuno abbia più il controllo. Tuttavia, Neshat continua a cercare uno spiraglio di bellezza. Crede nel potere dell’individuo, nel coraggio della popolazione che sceglie la pace. Anche se la tirannia appare immensa, anche se la disperazione è tangibile, resta convinta che un gesto di gentilezza o una poesia possano ancora fare la differenza.
Tra arte e politica: la guerra non è mai la risposta
Neshat è schietta: non crede che la guerra possa portare a una soluzione positiva per l’Iran. La frattura tra chi vive all’interno del Paese e chi vive all’estero è profonda. I primi combattono per sopravvivere, i secondi sognano il cambiamento. L’artista comprende la rabbia, ma rifiuta l’idea che Israele, o qualsiasi altro potere straniero, possa “liberare” il popolo iraniano. Non c’è guerra che abbia generato pace, ribadisce. La violenza genera solo altra violenza, e in questo momento nessuna alternativa concreta sembra all’orizzonte. Pur odiando il regime, Neshat teme anche il rischio che l’Iran diventi una nuova Siria, lacerata da interessi stranieri.
L’arte, secondo lei, può fare ciò che la politica non riesce: riconnetterci alla nostra umanità. In un mondo diviso da religioni, ideologie e confini, l’arte tocca le emozioni più profonde, creando connessioni invisibili tra persone diverse. È questo che fa la sua opera: colmare distanze tra iraniani e israeliani, tra occidentali e mediorientali. Non è una questione di propaganda, ma di emozione autentica. È questo il vero potere dell’arte: evocare ciò che ci accomuna, più che ciò che ci separa. E ricordarci perché vale la pena lottare per la dignità e la bontà, anche quando tutto sembra perduto.
L’identità dell’esilio: fragilità e forza di una donna artista
Ogni personaggio che Neshat rappresenta porta con sé una parte della sua identità. Le donne nei suoi video e nelle sue fotografie sono specchi che riflettono i suoi dilemmi, le sue paure e la sua forza. Neshat si descrive come una donna tosta ma fragile: lavora con tenacia, ma crolla facilmente; eppure si rialza sempre. Questo dualismo vive in ogni opera. Anche la sua condizione di artista in esilio — sospesa tra l’Iran e l’Occidente — è una lente attraverso cui guarda il mondo e sé stessa. Non appartiene del tutto a nessun luogo, eppure crea con sincerità, proiettando la sua verità interiore nei volti che ritrae.
Questa autenticità si traduce in immagini potenti e universali. Sebbene non siano dichiaratamente autobiografiche, le sue opere sono pervase da elementi personali: volti simili al suo, corpi che portano il suo peso simbolico, abiti neri come i suoi, trucco che richiama la sua estetica. È impossibile separare l’artista dalla sua arte. Ed è proprio questa fusione a renderla così potente: la sua arte non è un artificio, ma una confessione visiva. Le sue donne vulnerabili ma indomite incarnano il destino di milioni di donne nel mondo — e anche il suo.
Forugh Farrokhzad: la scintilla femminile della ribellione poetica
Tra le figure fondamentali per la formazione artistica di Neshat c’è senza dubbio Forugh Farrokhzad. Poetessa iconica e madre single, è stata un punto di riferimento per generazioni di donne iraniane. Farrokhzad ha osato parlare del corpo femminile, dell’amore, della maternità, rifiutando i codici morali del suo tempo. La sua vita è stata breve ma intensa, segnata dall’esclusione sociale e dal coraggio di essere se stessa. In lei, Neshat ha ritrovato un modello di integrità: una donna capace di scegliere la poesia, anche a costo di perdere tutto il resto.
I versi di Farrokhzad non hanno solo ispirato le immagini della serie Women of Allah, ma hanno anche fornito una grammatica emotiva alla visione del femminile di Neshat. L’artista sente una forte identificazione con i conflitti interiori della poetessa, con la sua tensione tra arte e maternità, tra solitudine e appartenenza. Come Farrokhzad, Neshat ha affrontato il giudizio, la marginalità e il dolore — trasformandoli in creazione. L’influenza della poetessa continua a vibrare nelle sue opere come una presenza costante, fragile e potente.
L’infanzia, i fiori e i canti: nascita di un’estetica emotiva
Prima dell’arte, per Neshat c’è stato un giardino. Nell’infanzia, in una piccola città conservatrice dell’Iran, viveva in una casa con un paradiso floreale curato dal padre. Un giorno, seduta da sola tra i fiori, ha sentito il richiamo malinconico dei canti coranici provenienti dalla moschea vicina — e ha iniziato a piangere, senza capire il perché. Quel momento, impregnato di misticismo e bellezza struggente, ha lasciato un’impronta indelebile nella sua sensibilità artistica. È lì che nasce la sua estetica fatta di contrasti: spiritualità e concretezza, gioia e tristezza, luce e ombra.
Quella malinconia, quella poesia sospesa, è la stessa che si ritrova nella saudade portoghese o nella nostalgia greca — ma anche nella ghorbat persiana: un senso di lontananza e dislocazione. Questo sentimento permea l’arte di Neshat, che racconta l’esilio come condizione esistenziale più che geografica. Dai film ai video, la sua narrazione è intrisa di delicatezza, profondità e spiritualità. Anche un gesto semplice, come condividere un caffè con uno sconosciuto, può diventare — nella sua visione — un atto poetico, un ricordo da conservare. Così l’arte diventa un modo per resistere e restare umani.