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Wangechi Mutu alla Galleria Borghese: la prima donna vivente a esporre

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A Roma, tra le pareti affrescate e i marmi della Galleria Borghese, ha luogo un evento senza precedenti: per la prima volta nella storia di questo iconico museo, una donna vivente è al centro di una mostra personale. L’artista è Wangechi Mutu, keniota-americana, visionaria e potente interprete del nostro tempo. La sua esposizione, Poemi della terra nera. Black Soil Poems, a cura di Cloé Perrone e visibile fino al 14 settembre, segna un momento simbolico: l’incontro tra l’arte africana contemporanea e il cuore della classicità occidentale. Ed è un incontro che non solo funziona, ma che apre nuove prospettive su cosa può essere un museo nel XXI secolo.

Memoria, lotta e radici: una poesia fatta di terra e resistenza

All’ingresso della prima sala, Mutu accoglie il pubblico con The Grains of Word, un’installazione composta da caffè, tè e carta che sprigiona un profumo intenso e coinvolgente. Il testo inciso nella terra è tratto dalla canzone War di Bob Marley, a sua volta ispirata dalle parole dell’imperatore etiope Hailé Selassié. L’opera diventa così una poesia olfattiva e politica, un atto di resistenza che unisce estetica e denuncia, evocando la lotta contro le disuguaglianze razziali. È un modo per portare dentro le mura della Galleria Borghese le voci del Sud globale, quelle che raramente trovano spazio in luoghi così simbolicamente carichi di potere.

Accanto, i mosaici romani raffigurano gladiatori, antichi strumenti di intrattenimento e sottomissione. Mutu mette in parallelo questi corpi esposti e sfruttati con quelli di oggi, ricordandoci che la storia non è mai davvero finita. La scelta di posizionare la sua opera accanto a queste immagini non è casuale: suggerisce un filo rosso tra passato e presente, tra antiche forme di dominio e quelle attuali. È un invito a guardare oltre la bellezza formale, a leggere tra le linee della storia e a riconoscere che molte delle sue dinamiche sopravvivono ancora.

Sorellanza e spiritualità in dialogo con il marmo

Nel cuore della Galleria, Mutu risponde alla violenza visiva del Ratto di Proserpina di Bernini con un gesto di cura: una collana sospesa sopra la scultura, composta da perle di terra rossa e nera mescolate con cera. L’opera si intitola Prayers e nasce da un gesto semplice e quotidiano: infilare perline, una pratica meditativa comune tra le donne in Kenya. La collana, fragile e potente al tempo stesso, fluttua come una benedizione sopra la drammaticità barocca del marmo, suggerendo una lettura più intima e spirituale dell’opera.

Accanto, due teste in bronzo intitolate Old Sisters propongono una conversazione silenziosa tra donne. Le acconciature elaborate sono un omaggio alla tradizione africana, mentre la scelta del bronzo richiama la monumentalità della scultura occidentale. In questo incontro tra linguaggi e materiali, Mutu celebra la resilienza femminile, la trasmissione intergenerazionale e il sapere che si nasconde nei gesti antichi. Le sue figure non si impongono, ma resistono: sono monumenti alla sopravvivenza e alla dignità.

Il gioco come forma di libertà e memoria

Nel Salone Lanfranco, Mutu trasforma lo spazio in un luogo di meraviglia sospesa. Suspended Playtime è una costellazione di palloni appesi al soffitto, realizzati con materiali di recupero come plastica, fango e tessuti, proprio come fanno i bambini in molte parti dell’Africa. L’installazione restituisce un ricordo d’infanzia, ma anche un messaggio politico: l’ingegno nasce dalla scarsità, il gioco è un atto di libertà. I palloni dondolano lentamente, alterando il ritmo del museo e suggerendo una temporalità diversa, più organica, quasi rituale.

L’opera non solo umanizza lo spazio museale, ma lo ribalta. La Galleria, luogo sacro dell’arte occidentale, si fa improvvisamente permeabile, accogliente, viva. Altrove, Mutu dissemina creature fantastiche fatte di piume, terra e materiali naturali, che sembrano emergere da un mito perduto. In questo continuo dialogo tra installazioni contemporanee e opere classiche, si attiva una metamorfosi: il museo diventa un organismo vivo, attraversato da forze opposte ma complementari. È qui che avviene il vero miracolo: l’antico e il nuovo si guardano, senza temersi.

La firma di Mutu: memoria, lutto e dignità

All’ingresso del museo, Mutu installa due figure scultoree enigmatiche, simili a vestali venute dal futuro. Sono alte, ieratiche, vestite di una spiritualità mutante che richiama sia le radici africane sia una dimensione mitologica senza tempo. Sembrano suggerire una nuova possibilità per l’identità femminile africana: autonoma, orgogliosa, universale. Anche il giardino, solitamente poco narrato, si anima con presenze simboliche: una sirena nera ci osserva, un serpente gigante dorme in una cesta, tra limoni e erbe officinali. Natura e immaginazione si fondono, trasformando lo spazio in un sogno rituale.

Chiudere il percorso al Gianicolo, all’American Academy in Rome, offre una visione ancora più intima del linguaggio di Mutu. Lì è esposta Shawasana I, scultura in bronzo che rappresenta una donna distesa, ispirata alla tragica morte di Nia Wilson, attivista nera uccisa in California. I dettagli – le unghie laccate, il sandalo slacciato, la stuoia che la copre – parlano di lutto, ma anche di cura e di memoria. È un contro-monumento silenzioso, che si oppone alla retorica virile dei busti risorgimentali circostanti. Mutu non dimentica Nia. E noi non dovremmo farlo.

Poemi della terra nera non è solo una mostra, è una dichiarazione. Ci ricorda che i musei non devono restare fermi nel tempo, ma possono diventare spazi di confronto, ascolto e trasformazione. Con la sua arte poetica e politica, Wangechi Mutu ci invita a guardare meglio, a leggere i silenzi della storia, a dare voce a chi è sempre stato ai margini. Ed è proprio in questo sguardo nuovo che risiede il futuro dell’arte.

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