Yohji Yamamoto è lo stilista che ha trasformato il nero in un linguaggio poetico e rivoluzionario, facendo della libertà il cuore della sua estetica. Dalla Tokyo del dopoguerra alle passerelle di Parigi, ha costruito un immaginario unico fatto di asimmetrie, tessuti grezzi e silhouette destrutturate. Lontano dalle logiche del prêt-à-porter occidentale, ha fondato un nuovo modo di intendere l’abito: non come ornamento, ma come protezione e manifestazione di pensiero. Una visione radicale che continua a ispirare generazioni.
Le radici giapponesi e il legame con la madre
La storia di Yamamoto nasce nel retrobottega di una sarta, sua madre, che con pazienza e dignità trasformava tessuti semplici in abiti carichi di significato. In quel laboratorio Yohji ha imparato il valore della manualità, l’odore del ferro da stiro sul lino, la poesia nascosta nelle cuciture invisibili. Quell’esperienza gli ha insegnato che l’abito non è soltanto un oggetto estetico, ma un linguaggio capace di proteggere e dare forza a chi lo indossa.
Quando la madre si ammala, Yamamoto segue il suo consiglio e si iscrive prima a legge alla Keio University, per poi approdare al Bunka Fashion College. È qui che matura la sua vocazione, scoprendo una nuova grammatica della moda, lontana dagli schemi binari maschile-femminile. Abiti ampi, destrutturati e senza genere diventano il suo modo di concepire la libertà, risposta naturale alla rigidità del diritto che aveva inizialmente intrapreso. Un percorso che segnerà per sempre la sua estetica.
L’approdo a Parigi e la rivoluzione del nero
Il debutto internazionale di Yamamoto avviene nel 1981, quando insieme a Rei Kawakubo presenta a Parigi collezioni in nero assoluto, caratterizzate da linee oversize, tessuti grezzi e cuciture volutamente visibili. La stampa occidentale lo etichetta come Hiroshima chic, definizione controversa che tenta di incasellare la sua radicalità. In realtà, il suo nero non è mai stato simbolo di tristezza, ma piuttosto un colore protettivo e arrogante al tempo stesso, capace di comunicare silenzio e forza.
Le critiche non scalfiscono la sua visione. Anzi, il contrasto con l’ideale estetico occidentale gli permette di rafforzare la sua poetica. Per Yamamoto, l’abito non deve rendere semplicemente belli, ma liberi. Le sue collezioni diventano un manifesto di resistenza alle mode effimere, un inno alla sostanza più che alla superficie. Così il nero smette di essere un colore neutro per diventare un simbolo di identità e protezione.
Collaborazioni e contaminazioni artistiche
Nonostante la radicalità, Yamamoto non si è mai chiuso in un universo autoreferenziale. Nel 2002 ha fondato Y-3 con adidas, aprendo la strada al fenomeno athleisure e dimostrando che la sua estetica poteva dialogare con il linguaggio sportivo. Prima ancora aveva collaborato con il cinema e il teatro, firmando costumi per Tony Scott e Takeshi Kitano, e vestendo personalità come Elton John e Pina Bausch. Ogni collaborazione riflette la sua capacità di superare i confini tra moda e arte.
La sua ricerca si è estesa anche alla comunicazione visiva, grazie al sodalizio con lo studio M/M (Paris), che ha curato cataloghi, performance e campagne. Questo approccio multidisciplinare ha contribuito a trasformare ogni sua collezione in un’esperienza culturale, più che in un semplice show di moda. In tutto ciò, Yamamoto ha mantenuto una coerenza rara: la volontà di creare ciò che manca, piuttosto che inseguire le tendenze esistenti.
Una filosofia senza tempo
Oggi, a più di ottant’anni, Yamamoto continua a sorprendere con collezioni che uniscono rigore e poesia. Dopo le difficoltà economiche del 2009, ha saputo risollevarsi senza mai tradire la sua visione artigianale. Ogni suo abito è un atto filosofico, un pensiero cucito che interroga il senso stesso della moda. Non disegna per seguire la cronologia delle stagioni, ma per immaginare un futuro che ancora non esiste.
La nuova generazione riscopre nel suo archivio una fonte d’ispirazione inesauribile. I cappotti monumentali degli anni ’90, gli abiti da sposa destrutturati del 1999 e le sue più recenti sperimentazioni continuano a raccontare un’estetica senza tempo. Yamamoto dimostra che la moda può essere linguaggio di libertà, strumento di protezione e poesia in movimento. Il nero, cifra distintiva della sua carriera, rimane il suo manifesto eterno.