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Yohji Yamamoto: il maestro del nero che ha riscritto la moda

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Visionario e anticonformista, Yohji Yamamoto ha rivoluzionato i codici sartoriali, imponendo un’estetica che intreccia minimalismo, dramma e innovazione. Dai primi passi a Tokyo fino alle passerelle di Parigi, ha sfidato le regole della moda, esaltando il nero come linguaggio universale e dando vita a collezioni che fondono tradizione giapponese e modernità globale. La sua carriera è una testimonianza di come l’arte del vestire possa diventare un manifesto culturale, unendo funzionalità, poesia e un’inconfondibile forza visiva.

Gli inizi e l’affermazione internazionale

Dopo la laurea in legge nel 1966, Yohji Yamamoto scelse di seguire la sua vera vocazione iscrivendosi al Bunkafukuso Gakuin, la più prestigiosa scuola di moda di Tokyo. Iniziò la carriera negli anni Settanta come designer anonimo, affinando la propria tecnica artigianale e una visione estetica fuori dagli schemi. Nel 1977 lanciò la linea Y’s, preludio al debutto internazionale.

Il momento decisivo arrivò nel 1981, quando insieme a Rei Kawakubo presentò a Parigi una collezione di prêt-à-porter femminile che inaugurò la stagione della moda decostruita. Silhouette fluide, tessuti sdruciti e predominanza del nero destabilizzarono il pubblico europeo, aprendo una nuova era. Nel 1984 Yamamoto introdusse anche la linea maschile, consolidando il suo linguaggio estetico come un codice riconoscibile e intramontabile.

Un’estetica tra decostruzione e romanticismo

Le creazioni di Yamamoto si distinguono per l’uso costante del nero, la fluidità delle forme e l’ambiguità di genere. Lontano dalla sessualizzazione esplicita, preferiva vestire le donne con capi ispirati al guardaroba maschile, trasformando il concetto di femminilità in un territorio libero da stereotipi. Spesso sceglieva modelle per sfilate maschili, sfumando i confini identitari.

Pur avvicinandosi in alcuni momenti al romanticismo dell’haute couture parigina, Yamamoto evitò i cliché del guardaroba femminile classico. Tacchi, scollature e trasparenze lasciarono spazio a cappotti scultorei, completi scuri e camicie bianche dal taglio impeccabile. Il risultato era un’eleganza carica di forza e mistero, capace di evocare potere e sensualità attraverso il minimalismo.

Il nero come firma assoluta

Per Yamamoto, il nero non era solo un colore ma una filosofia. Modesto e arrogante, semplice e misterioso, esprimeva indipendenza e riservatezza. Negli anni Ottanta, i suoi estimatori furono soprannominati karasuzoku, “la tribù dei corvi”, simbolo di un’élite estetica che vedeva nel nero un’affermazione di stile e autocontrollo.

Questa predilezione ha radici culturali profonde: in Giappone il nero può indicare nobiltà, disciplina e radici rurali, mentre in Occidente porta con sé riferimenti al lutto, alla sobrietà e all’intellettualismo. Yamamoto seppe unire queste simbologie, modellando tessuti come lana e popeline in creazioni scultoree prive di ornamenti, dove ogni piega diventava un gesto artistico.

Le collaborazioni e l’eredità

Nel corso della sua carriera, Yamamoto ha sviluppato numerose linee, tra cui Y’s, Yohji Yamamoto Pour Homme e le etichette haute couture, esplorando contaminazioni tra punk, romanticismo vittoriano e cultura pop giapponese. Il suo approccio sperimentale ha trovato nuova espressione nel 2003 con Y-3, nata dalla collaborazione con adidas e co-diretta con Nic Galway.

Questa fusione tra alta moda e sportswear, inedita per l’epoca, anticipò le future collaborazioni tra brand di lusso e marchi sportivi. Con linee pulite e funzionali, Y-3 divenne un modello di come due universi estetici opposti possano incontrarsi. Oggi, l’impatto di Yamamoto si riflette non solo nei suoi capi ma nella libertà creativa che ha ispirato in generazioni di designer, mantenendo intatta la sua aura di maestro della moda contemporanea.

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